domenica 17 marzo 2013

Noise of the Universe _ Intervista a Michele Polga


È grazie ad un singolare rapporto che ho avuto la fortuna di ascoltare per la prima volta il sound di Michele Polga, nell’eccellente quanto poco conosciuto progetto cooperativo a firma di Tommaso Cappellato (drums), Danilo Gallo (bass), Francesco Bigoni (tenor sax) e Michele Polga (tenor sax), appunto, ricevuto in dono da Tommaso qualche tempo fa.


NESSO G, registrato sul finire del 2008, è uno di quei dischi che permettono di dire a testa alta che il jazz suonato dagli italiani non è solamente maturo, preparato e curioso, ma è anche originale ed autonomo da un bel pezzo.
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Senza scomodare JC o AA, come definire altrimenti pezzi come Mysteries of Life, suonato con una libertà ed una spiritualità tali da evocare echi universali di spazi interstellari, o The Knight, che vibra di un amore supremo, fondendo intensi urli ad ingenui ritornelli, per costruire un tessuto sonoro tanto espressivo ed emozionale, quanto unico.
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Cos’altro dire dell’incantevole Lullaby of Rattlesnakes, che ha l’aspetto di un antico componimento lirico che, d’incanto, diventa collettiva conversazione contemporanea o della sinuosa versione di On Green Dolphin Street, che oscilla notoriamente tra bossa e swing, ma che qui ammalia con una souplesse felina ed affascinante?
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NESSO G mi ha incuriosito subito l’anima, e pure pacificato la coscienza, se è per questo, oltre ad avermi fatto sentire per la prima volta il sax tenore di Michele Polga, dicevo. 
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Ed allora l’ho cercato, perché se la sorpresa è accadimento vitale nella scoperta, la ricerca è lo strumento necessario per la comprensione.
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Il primo lavoro a suo nome che ha attratto la mia curiosità è anche l’ultimo. 
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Live at Panic, è stato registrato al jazz club di Marostica, Vicenza, nel dicembre 2010 ed è uscito sul finire del 2011 per i tipi della Abeat Records. Già la cover merita la giusta attenzione ‘chè, pur se nel formato troooppo piccolo da CD, evoca lo splendido Page One di Joe Henderson (1963), dove il sassofonista si staglia su uno sfondo marmoreo in un contrastato bianco e nero, lì fotografato da Francis Wolff e qui da Eddie Tan, affratellati dalla stessa eleganza. Solo la scritta, colorata per entrambi i titoli, lascia presagire la vivacità ed il calore dei due rispettivi lavori che, infatti, non tradiscono le aspettative.
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La registrazione al Panic, coglie il quintetto di Michele Polga, con Fabrizio Bosso (tp), Luca Mannutza (p), Luca Bulgarelli (bass) e Tommaso Cappellato (drums) in splendida forma.
L’energia collettiva, la capacità tecnica dei singoli ed il sentire reciproco tra di loro, rendono l’ascolto un’esperienza coinvolgente e sorprendente allo stesso tempo, tipica degli eventi live, ma solo di quelli ben riusciti.
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Le cinque lunghe tracce, due a firma del leader, una di Mannutza ed altri due capolavori senza tempo come Bemsha Swing e Body And Soul, dimostrano evidenti capacità, sia in termini di scrittura che d’improvvisazione ma, soprattutto, la padronanza di un linguaggio oramai universale, adottato e reso personale da questi nostri ragazzi con naturalezza e vera passione.
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Su tutte spiccano Clouds Over Me di Polga e la scoppiettante traccia di Monk e, sebbene tutti i componenti del combo meriterebbero un’analisi del loro lessico individuale, come il beat swingante ed attuale di Cappellato, è la voce del tenore che cattura la mia attenzione in questo ascolto. Con un suono seducente, ora cantabile ora graffiante e comunque sempre «pieno di vita e d’idee», il sax di Michele Polga non si obbliga a distinguere tra new mainstream o free di clausura, ma sceglie ogni volta di essere se stesso e, come spetta alle infinite variabili dell’essere umano, si presenta sinceramente sempre diverso eppur riconoscibile tra tanti.
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Ho raggiunto Michele al telefono, che si è raccontato con molta naturalezza ed ha accettato di partecipare anche ad un gioco, noto ai più come Blindfold test, raramente utilizzato in Italia. Dal momento che parlare di musica è sempre difficile, vi consiglio di continuare a leggere le sue parole facendo partire la seguente playlist, dove potrete ascoltare un estratto dal Live at Panic e tutti i brani che ho sottoposto a Michele per il test.
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Capirete molto di più di quello che è possibile spiegare con le semplici parole.

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JfI: Ciao Michele, qual è il filo rosso che lega due produzioni apparentemente così diverse come NESSO G ed il Live at Panic?
MP: Il mio amore nei confronti di questa musica.
Nesso G e Live at Panic rappresentano due idiomi differenti di un'unica matrice linguistica.
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JfI: mi ha affascinato subito la cover del tuo ultimo lavoro, curata da Sir Albert & Mr. Simon, è un voluto omaggio ad un vecchio Maestro Blue Note o solo una grafica veramente azzeccata?
MP: Le copertine dei miei cd sono tutte ideate e realizzate da mio fratello Simone, che ora lavora a New York per uno studio di architettura e design. Per quest’ultima copertina non c'erano riferimeti “artistici” alle copertine Blue Note. È stata una sua idea. 
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JfI: cosa dicono le critiche ufficiali e come vanno le vendite?
MP: Il disco sembra sia piaciuto. Ha avuto buone recensioni. JAZZIT mi ha dedicato qualche pagina con un’intervista e ha messo il cd nei 100 più belli dell’anno. Nel portale on line di MUSICA JAZZ, dopo l’uscita del cd è stata pubblicata una mia intervista.
Anche le vendite sembra stiano andando bene. L’ultima volta che ho sentito Mario Caccia, della Abeat, mi diceva che eravamo poco sotto le 1000 copie e che è un ottimo risultato considerando i tempi.
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JfI: tra tutte, mi è rimasta impressa la tua Clouds Over Me, che avevi già inciso nel disco omonimo del 2009. Un caro amico ama ripetermi che «il jazz deve essere ascoltato dal vivo», qual è per te la differenza di questi due aspetti di fare musica?
MP: Dal vivo c'è uno scambio di energia tra pubblico e musicisti.
La differenza sta anche nel fatto che quando sei in studio sai che ciò che stai suonando viene registrato. Trovare la totale spontaneità in quella situazione non è facile né naturale.
Live at Panic Jazz Club non è stato un disco pensato a priori. A fine serata, come riportato nelle note di copertina, il fonico del Panic ci consegnò la registrazione e una volta ascoltata decidemmo di cercare di pubblicarla. Credo sia questo il punto chiave, il fatto che noi non abbiamo suonato per fare un disco, bensì per il pubblico di quella sera, che era lì a condividere quel momento con noi.
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JfI: I tuoi ultimi lavori ti vedono impegnato con Raphael Gualazzi e con Fabrizio Bosso, mi parli un po’ di questi due ragazzi…
MP: La partecipazione al disco di Raphael Gualazzi è stata possibile proprio grazie a Fabrizio. Loro due avevano già collaborato l’anno scorso per il Festival, e quando Raphael ha deciso di fare il nuovo disco, ha chiesto a Bosso una sezione fiati e Fabrizio ha pensato a me.
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JfI: C’è un lungo tour per il lancio di Happy Mistake, promozionato sul sito di Gualazzi, dove però Raphael suonerà con musicisti francesi?
MP: infatti, il nostro lavoro è finito in studio con la produzione della Sugar, non c’è stato alcun prosieguo della cosa. Spesso nella musica Pop chi lavora in studio non è detto che poi lavori nelle tournée.
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JfI: Il contrario di quello che accade nel jazz, dove il rapporto di amicizia può contare di più della semplice affinità professionale
MP: Sì. Con Fabrizio ci conosciamo da tantissimi anni, ormai, anche grazie al fatto che lui ha abitato per anni in provincia di Padova, dove si è trasferito per amore di una donna, dopo aver vissuto a Bari. Da quando ci siamo conosciuti ci sono state diverse occasioni in cui, non in maniera sistematica, io ho avuto il piacere di coinvolgerlo come ospite in qualche mia serata.
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JfI: È così che è nato il quintetto di Live at Panic?
MP: Non proprio, almeno non nelle intenzioni, perché non ho progettato quel gruppo pensando a Fabrizio. È stato più per il fatto che io avevo interesse nel confrontarmi con musicisti di un’altra area rispetto a quella che frequentavo solitamente, non perché mi fossi stancato dei colleghi di zona, anzi, ce ne sono di bravissimi ed infatti a Maggio entro nuovamente in studio con i componenti del “vecchio quartetto”, ma perché la musica, secondo me, è fatta soprattutto d’incontri e quelli nuovi possono darti appunto qualcosa di diverso rispetto a quello che hai già.
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JfI: Conoscevi già gli altri musicisti che poi avrebbero composto quel quintetto?
MP: Ho conosciuto Luca Mannutza sempre grazie a Fabrizio Bosso, che mi aveva invitato un sera ad un suo concerto, e mi era piaciuto parecchio. Poi grazie a Maurizio Giammarco, che venne al festival di Vicenza a suonare in trio e mi invitò sul palco in un paio di pezzi, ho sentito Luca Bulgarelli. Insomma, è in questo modo che mi ero promesso di mettere in piedi un nuovo Quartetto che comprendesse questi due musicisti, insieme a Tommaso Cappellato che è un vero amico e con il quale suono spesso insieme, e ci sono riuscito. Con quel Quartetto ho suonato al Panic di Marostica ed è stato notevole, ci siamo divertiti ed abbiamo riscontrato un’elevata affinità musicale tra noi.
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JfI: I due Luca vivono a Roma ed hanno fatto parte di diversi gruppi di Bosso…
MP: Si, e con loro volevo organizzare una serie di concerti consecutivi, non impegnare il gruppo per l’ennesima data singola, che tra l’altro in termini di costi è davvero sconveniente. Ho chiesto ai ragazzi che ne pensavano se avessi coinvolto Fabrizio nella band. Avevo intuito il suono di un quintetto. Tutti hanno accolto con piacere. Immagino anche che questo mi abbia fatto avere anche più appeal,  entrare più facilmente in contatto anche con gestori di locali che non conoscevano ancora il mio nome. Fabrizio ha accettato subito, ed è così che è nato un primo giro di concerti in Quintetto, che poi ha portato alla pubblicazione di quel Live at Panic Jazz Club, per la Abeat.
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JfI: Franco D’Andrea, in un’intervista del 2007, affermò a Nicola Gaeta che «il jazz è così universale come linguaggio che travalica qualsiasi forma di distinzione tra etnie, nazionalità e culture, le più diverse tra loro. Il cittadino del jazz è un apolide ed un jazzista è solo un jazzista». Impossibile non ritrovarsi nella libertà della definizione, come è innegabile che le radici culturali, e le esperienze personali, lasciano indelebili segni sulle espressioni artistiche che, come per il linguaggio, si manifestano di volta in volta con uno slang diverso.
Per te ha senso parlare di jazz italiano?
MP: Sì, solo se intendiamo parlare di jazz suonato da musicisti italiani. Per me ovunque esiste il jazz e basta.
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JfI: come vedi dall’interno la situazione del jazz in Italia, sia in termini culturali che professionali?
MP: Mi sembra buona, ci sono tanti festival. Riviste e portali specializzati.
In questi contesti rimane tuttavia appannaggio di pochi ottenere la visibilità. Forse viviamo un momento storico in cui c'è bisogno di certezze...e anche il jazz non è immune dai meccanismi del mercato. Non è tempo di mecenati né di manager militanti.
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JfI: Non ho mai avuto la possibilità di ascoltarti dal vivo, ed il tuo nome è raramente presente nella programmazione dei jazz club romani. L’italia del jazz è mai stata un paese unito?
MP: A Roma ho suonato soltanto un paio di volte alla Casa del Jazz, quando il direttore artistico era Luciano Linzi. La prima volta con il quintetto del disco “Movin’ House” e la seconda con il quartetto di “Clouds Over Me”. Nei Jazz Club però non è ancora capitata l’occasione. Tornando alla tua domanda, la scena italiana del jazz non credo abbia ancora conosciuto l'unità. Al di là dei grandi nomi, ovviamente. La mia esperienza è che promuoversi al di fuori della propria area non è per niente facile: dove non sono conosciuto, non c'è pubblico. Mentre nei clubs che frequento come ascoltatore sono molto più presenti i musicisti americani piuttosto degli italiani... È il mercato, la domanda e l'offerta. Nemmeno le istituzioni pubbliche ne sono immuni.
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JfI: dal 1996 a Vicenza c’è il New Conversations, un festival diretto da Riccardo Brazzale, patrocinato dall’assessorato alla cultura. È sempre più raro trovare connessioni tra le istituzioni e la ricerca culturale, mentre ci sono gustosi frutti, anche se più difficili da coltivare, nelle autogestioni e nel cooperativismo dei musicisti. Quali sono le tue esperienze ed i tuoi pensieri in merito?
MP: New Conversation ha un calendario articolato, non tutti i concerti sono legati all'istituzione pubblica, molti eventi collaterali sono finanziati dai privati, club e locali vari.
Personalmente ho avuto l'opportunità di suonarci grazie al Panic Jazz Club, che nella settimana del festival si "trasferisce" a Vicenza, con un proprio programma che confluisce in quello globale. Una realtà molto attiva nel cooperativismo che conosco è il collettivo GalloRojo. Sono forti, motivati e coerenti. Nesso G è una sua produzione (Danilo Gallo è uno dei fondatori). Anche Franco D'Andrea, musicista internazionale e al di fuori da logiche di mercato, ha pubblicato i suoi ultimi lavori con loro.
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JfI: l’infinita ricerca di un suono personale e la padronanza tecnica sono, a mio parere, gli elementi fondamentali per la riconoscibilità di un musicista, a patto che abbia qualcosa da dire, è ovvio. Cosa ne pensi e su cosa dedichi più tempo nello studio?
MP: Ho dedicato molto tempo al suono e lo faccio tuttora con piacere, è forse uno degli aspetti dello studio che non mi annoia mai. È una ricerca continua della mia identità. Con la tecnica strumentale ho un brutto rapporto. È inspiegabile come a volte mi sembra di arrancare ancora dopo ore di studio, mentre altre volte mi sembra di avere una scioltezza che non credevo di avere. Mah...paranoie da musicista!  Vorrei che fosse la ricerca intellettuale e mentale a prevalere sull'aspetto fisico della performance, che l'intensità di una nota prevalesse su un passaggio tecnico. Passo anche molto tempo al pianoforte, alla ricerca di soluzioni armoniche che mi piacciano.
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JfI: Re-Trane, la Body and Soul indimenticabile nella versione di Hawk, il Joe Henderson della cover di Page One… semplici connessioni facili a posteriori, o questi sono  davvero alcuni dei tuoi riferimenti stilistici?
MP: Coltrane e Henderson sono sempre in lotta nel contendersi il primo posto nella mia classifica. Anche se con Henderson sento una maggiore affinità. È stato  la mia fissazione per anni. Riuscivo ad ascoltare solo lui. Oggi ascolto molto tutte le novità della scena newyorkese. Ti posso citare, tra gli altri,  artisti come Mark Turner, Seamus Blake, Walter Smith III, Kurt Rosenwinkel, Lage Lund, Markus Strickland, Omer Avital e altri di questa generazione. Credo sia lì che nascono quelle novità che non hanno dimenticato la tradizione, ciò che ti permette di dire che la loro musica è ancora jazz.
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JfI: il tuo sito è molto accattivante, con un’estetica ricercata ed una completezza delle informazioni. Come vivi, in generale, il rapporto con il web?
MP: Grazie, il sito me lo sono sempre fatto io e da poco è on-line quello nuovo. Credo che il web sia sicuramente un mezzo di divulgazione straordinario, e per questo va sfruttato.
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JfI: molti lamentano che la diversa diffusione della musica in rete abbia danneggiato i musicisti. Raramente, però, si parla delle resistenze dei produttori, che non si adeguano ai tempi che cambiano. Sul tuo sito la musica da te registrata è quasi tutta disponibile all’ascolto. Internet come mezzo di divulgazione o come un’incarnazione della crisi?
MP: Internet non incarna affatto la crisi, incarna semmai un cambiamento epocale. I danni che ha recato all'industria discografica sono certo enormi. Personalmente credo mi possa apportare solo dei vantaggi: permettere di ascoltare la mia musica è un modo per farmi conoscere al pubblico.
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JfI: Michele, oggi si può vivere di jazz?
MP: Sì, bisogna un po’ adattarsi...
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JfI: a parte la musica, quali altre passioni alimentano la tua ispirazione?
MP: La lettura mi aiuta nella mia ricerca della serenità e dell'equilibrio, che sono la mia massima aspirazione. L'ispirazione arriva dalla vita reale.
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JfI: i tuoi prossimi progetti?
MP: Pubblicare la nuova registrazione fatta a gennaio con il quintetto assieme a Fabrizio Bosso, Luca Mannutza, Luca Bulgarelli e Tommaso Cappellato.
A maggio ho fissato una registrazione con il quartetto di “Clouds over me”, assieme a Paolo Birro, Stefano Senni e Walter Paoli. C’è anche in programma un tour con Nesso G e poi un nuovo cd. A dire il vero le idee non mancano, ma concretizzarle non è così semplice… un buon esercizio per la pazienza!
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JfI: Michele, ora vorrei proporti un gioco, il famoso Blindfold test, che si dice sia stato inventato da Leonard Feather per la rivista Metronome o per Down Beat, te la senti di partecipare?
MP: Sì, volentieri!
JfI: Bene, mi fa piacere perché spesso mi son sentito dire “no, meglio di no”, soprattutto da alcuni addetti ai lavori, oltreché da musicisti, mentre invece per me questo gioco è solo un momento di condivisione e divertimento, non certo una gara, e magari sfatiamo uno di quei miti negativi che racconta che i musicisti di oggi non conoscono la storia del Jazz. Allora partiamo?
MP: Sì, partiamo!
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1) THINGS (B. Gilmore):
Bill Gilmore (trumpet) and Ivan Vandor (tenor sax) Combo
Roberto Pregadio (piano), Tonino Ferrelli (bass), Roberto Zappulla (drums)
rec on Rome, september 19, 1960

MP: mi sembra di non aver mai sentito questo combo e fin’ora non riconosco nemmeno il trombettista. Ma sono italiani?
JfI: italianizzati, perché il sassofonista è nato a Pècs, in Ungheria, ma è sempre vissuto in Italia, ed il trombettista è di Detroit, nel Michigan, ma da dopo la guerra è venuto in Europa e dalla metà degli anni Cinquanta si è stabilito in Italia.
MP: no, non li conosco.
JfI: è Ivan Vandor al sax tenore [1], mentre alla tromba c’è Bill Gilmore, che è anche autore del brano.
MP: non sapevo nemmeno l’esistenza di questo sassofonista, ma per certi versi il suono mi ricorda un po’ Hank Mobley.
JfI: Ok, sono stato un po’ stronzo, come inizio, lo ammetto, ma passiamo alla seconda traccia
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2) On Green Dolphin Street (Bronislau Kaper - Ned Washington)
Eraldo Volonté (tenor sax) Quartet
Renato Sellani (piano), Giorgio Azzolini (bass), Lionello Bionda (drums)
From My Point Of View – DURIUM 30-077
Rec on Milan, May/November 1963

MP: è On Green Dolphin Street (dopo tre secondi); mi verrebbe da dire… ma ho paura di sbagliare. Italiano o americano?
JfI: italiano.
MP: intanto, questo è uno innamorato di Dexter, profondamente; ma guarda, so che sbaglio, all’inizio ho pensato che fosse innamorato di Dexter Gordon ma, ti dico, ci sono delle cose nel registro acuto dello strumento che ricordano un po’ Coltrane.
JfI: era sicuramente innamorato di Trane.
MP: allora, un grande sassofonista italiano, innamorato di Trane che però io ho sentito suonare esattamente come Stan Getz, anche, è stato Eraldo Volonté [2].
JfI: Bravo!
MP: pensa che era molto amico di mio zio, che da giovane viveva a Milano e suonava la chitarra, e lui mi parlava spesso di questo Eraldo Volonté, con il quale aveva condiviso una vera amicizia, che travalicava anche la musica, e mi diceva che era un sassofonista pazzesco. Mi ricordo che, quando lo andavo a trovare, mi faceva sentire sempre un disco in cui Eraldo suonava… come si chiama… (me la canticchia) Everything Happens To Me, ma io avevo dodici anni e non è che all’epoca m’interessasse più di tanto quella roba là, però poi con gli anni, quando mi sono appassionato, ho recuperato dei dischi suoi e, se prima in quel ricordo là lo sentivo suonare morbido, poi ho beccato due dischi in cui era Coltrane nella maniera più spietata.
JfI: credo che John Coltrane fosse stato il suo vero riferimento, si sente dalla sua ricerca musicale ed è documentato dalle impressioni che Eraldo Volonté ha lasciato a Musica Jazz nel gennaio 1963, subito dopo i due set che il Quartetto di Trane eseguì al Teatro dell’Arte di Milano, il 2 dicembre 1962 (vedi link seguente). 

Impressioni su John Coltrane

JfI: Leggendo le sue parole, e confrontandole con le opinioni degli altri musicisti italiani, non ci possono essere dubbi su questo. Se non ricordo male, Arrigo Polillo scrisse che Eraldo fu uno dei pochissimi musicisti che lui incontrò a Juan Les Pins, dove era andato ad ascoltare il Quartetto di Trane al Festival di Antibes nel ’65.
MP: però una cosa allucinante è stata quando ho trovato un disco di Stan Getz, In Stockholm, dove è incisa una versione di Everything Happens To Me e, veramente, Eraldo suona le frasi di Stan!!!
JfI: credo che, all’epoca, la cultura dell’ascolto fosse la vera scuola
MP: certo, si andava avanti per imitazione
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3) NOI E LORO (N. Rotondo)
Nunzio Rotondo (trumpet) Quintet
Enzo Scoppa (tenor sax), Raymond Fol (p), Bibi Rovère (bass), Gil Cuppini (drums)
From The Artistry of NR – MUSIC LPM 2076
Rec on Rome, March 26, 1959

MP: sempre italiani?
JfI: si, un Quintetto con tromba e tenore, con un gigante della tromba ed un “grande dilettante”, come veniva definito il sassofonista dalla critica. Forse è il trombettista che ti può aiutare a capire.
MP: No, non lo conosco.
JfI: alla tromba c’è Nunzio Rotondo
MP: ecco, però non mi aiuta. Non credo proprio di riconoscere il sassofonista
JfI: al sax c’è Enzo Scoppa [3]
MP: ah, ho sentito spesso il suo nome, anche perché me ne ha parlato Giambattista Gioia, che conosco bene ed ha suonato con Scoppa, ma non ho mai sentito niente di lui.
JfI: Nemmeno i lavori con Cicci Santucci?
MP: il batterista?
JfI: no, un trombettista romano, che nei primi anni Settanta ha costituito con Scoppa un quintetto molto interessante. Magari ti mando qualcosa da ascoltare.
MP: volentieri, molto volentieri.
JfI: andiamo avanti, nella traccia seguente c’è un tenore famosissimo.
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4) Hector's House ( Ian Carr)
Gianni Basso (tenor sax) Quartet
Renato Sellani (piano), Dodo Goia (bass), Tullio De Piscopo (drums)
From HIT – CAROSELLO CLE 21016
Rec on Milan, June 6 and 7, 1975

MP: Sempre italiani?
JfI: si
MP: cazzo! (ridiamo)
JfI: m’incuriosiva approfondire un panorama specifico e mostrarne le sfaccettature.
MP: questo è stato galvanizzato dagli Stone Alliance di Steve Grossman e Gene Perla…
JfI: buona intuizione, anche se dovrebbe essere successo in simultanea, dal momento che quest’incisione è del giugno 1975, proprio nello stesso mese ed anno in cui gli Stone Alliance registravano il loro primo disco, che uscirà solo nel 1976.
MP: Ma di dov’è?
JfI: piemontese
MP: non dirmi che è Gianni Basso?! [4]
JfI: l’hai detto!
MP: ma pensa… pazzesco Gianni, pazzesco… senti che roba!? E poi ha sempre un relax nel modo di suonare… a me è capitato di suonare con lui ed era in un altro stadio quando suonava, era ad un altro livello Gianni
JfI: quinta traccia?
MP: andiamo!
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5) Take the A Train (Billy Strayhorn)
Joe Henderson (tenor sax) Trio
Dave Holland (bass), Al Foster (drums)
From live at North Sea Jazz Festival 1993 (radiobroadcast)


MP: beh, Joe Henderson [5]

JfI: wow!  Nemmeno cinque secondi!
MP: è Joe, lui è il numero uno; è incredibile, io ho ascoltato per anni solo lui, non c’era nessun altro che m’intrippava come lui… ne ho fatto indigestione ed infatti è un po’ che non lo ascolto, però, senti qua…
JfI: è uno dei tuoi idoli, raccontaci perché?
MP: ci sono tutte le incisioni del periodo Blue Note che lui suona come un alieno; il suo solismo per me è il più interessante di tutti, perché dal punto di vista armonico, dal punto di vista ritmico e dal punto di vista sonoro Joe ha sempre delle soluzioni alternative. Poi certe volte fa delle cose, che se le facesse qualsiasi altro sassofonista sarebbero kitsch, addirittura, che sembrano cose Rhythm & Blues per fare il figo durante un concerto, ma quando le fa lui, non so come mai, suonano jazz alla grande.
JfI: andiamo avanti
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6) Central Park West (J. Coltrane)
Larry Nocella (tenor sax) Quartet
Bob Neloms (piano), Cameron Brown (bass), Dannie Richmond (drums)
From Everything Happens To Me – RED RECORD VPA 167
Rec on Bologna, November 1980

MP: Pharoah Sanders (dopo tre secondi), possibile?
JfI: ehm… no.
MP: allora è Larry Nocella [6]
JfI: bravo!
MP: sai cosa mi ha ingannato? L’inizio dell’accompagnamento del brano, quando il sax suona ancora poche note, aveva un po’ l’aspetto di alcuni dischi di Pharoah, che sono una via di mezzo tra il Pop ed il Funky, no?, poi quando sono andati sulla ballad, allora ho capito che, effettivamente, non poteva essere lui; però il suono, se non è Pharoah è solo Larry…
JfI: un altro di cui si parla sempre troppo poco. Passiamo alla traccia sette
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7) My Funny Valentine (R. Rodgers - L. Hart)
Paolo Fresu (tp, flgh) Quintet
Tino Tracanna (tenor sax), Roberto Cipelli (p), Attilio Zanchi (bass), Ettore Fioravanti (drums)
From Le 5 giornate del Jazz
Rec live at Conservatorio Monteverdi di Bolzano, inverno 2005/2006

MP: sono ancora italiani questi?
JfI: si, siamo di nuovo in Italia
MP: mah… di che anno è?
JfI: recente, siamo nel 2005
MP: ma sai che… mi vengono due nomi, ma probabilmente sono sbagliati tutti e due; il primo che mi è venuto in mente è stato Pietro, ma poi per come suona, non mi sembra lui.
JfI: no, infatti, non è Pietro Tonolo. Forse è il sound del Quintetto che potrebbe aiutarti o, proprio in questo caso, è stato quello che ti ha portato fuori strada.
MP: ma è Tracanna?
JfI: si, è Tino Tracanna [7]
MP: io sono un fan di Tino, tutto sommato, però in questo brano non mi entusiasma. Ci sono state due o tre cose sulle note acute che non mi hanno aiutato a pensare a lui, anzi che non mi sono proprio piaciute.
JfI. A me questa versione piace, anche se l’ho utilizzata proprio perché volevo vedere quanto la voce del Quintetto Italiano schiacciasse quella dei singoli protagonisti.
MP: beh è facile, d’altronde Fresu è una popstar e, normalmente, Tino suona benissimo, Tino è fantastico.
JfI: per esempio nell’ultimo suo disco, coadiuvato da Mauro Ottolini, Tracanna fa delle cose personalissime, impressionanti e molto moderne
MP: sai che non l’ho ancora sentito? Ma a questo punto lo cerco e me lo prendo
JfI: questa che segue è la penultima traccia
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8) ‘ROUND MIDNIGHT (Monk)
Chet Baker (tp) Quintet
Maurizio Giammarco (tenor sax), Dennis Luxion (p), Riccardo Del Fra (bass), Donny Donable (drums)
From Live at Le Dreher 1980
Rec in Paris, February 29, 1980

MP: questo ha un suono veramente intrigante, sempre italiano?
JfI: italiano, l’unico insieme al bassista in questo quintetto internazionale
MP: non l’ho mai sentito…
JfI: ti aiuto, perché lo conosci sicuramente e l’ho messo qui in antitesi con quello che dicevamo prima. Siamo all’inizio del 1980 ed Il Quintetto è capitanato da quella stella di Chet Baker, ma il sassofonista, che qui non ha ancor trent’anni, a mio parere non si lascia imbarazzare e, anzi, si permette di sorprenderci…
MP: ma è Giammarco?
JfI: giusto, Maurizio Giammarco [8]
MP: ma qui ha un suono meraviglioso, cazzo… lui ha una matrice di suono che è, non dico diametralmente opposta alla mia, però abbastanza diversa, pur avendolo bello, perche è ovvio che diverso per me non significa che non è bello, ma che solitamente io preferisco altre cose, ma qui mi piace molto… fantastico
JfI: bene, questo che segue è l’ultimo pezzo, ma mi sono davvero divertito
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9) Alone Together ( Dietz – Schwartz)
Giovanni Mazzarino Quartet
Francesco Bearzatti (tenor sax), Stefano Senni (bass), Paolo Mappa (drums)
From GM 4tet Plays Ballads
Rec at Catania (Sicily), September 10, 1998

MP: questo qui, ed il discorso sarebbe valido anche per il pezzo di prima di Maurizio, mi fa pensare che il suono lo ha davvero ottenuto, cioè che è arrivato… senti che roba qua… ti dico chi è?
JfI: quando vuoi
MP: è Francesco
JfI: è Bearzatti, bravo! [9]
MP: fantastico Francesco…
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JfI: che dire Michele, grazie per aver partecipato, l’intento era quello di sorprenderci e condividere, di spostare un poco il punto di vista e scoprire il già noto, di abbattere le barriere di genere ed individuare semmai labili confini emotivi e, a parte che ne hai indovinati otto su nove, ti ringrazio veramente.
MP: ma grazie a te, mi è piaciuto un sacco fare questo gioco qui.
JfI: a presto!






Michele Polga’s photos credit:



[1] Ivan Vandor nasce a Pècs (Ungheria), 13 ottobre 1932; nel 1949 costituisce la Roman New Orleans Jazz Band; suona con Cesàri, Mussolini, Rotondo, Nicolosi, tra gli altri, ma appare anche col Gruppo Romano Free Jazz nel ’67 e partecipa ad un concerto RAI con Rava e Lacy nel ’69.

[2] Eraldo Volonté nasce a Milano, 5 febbraio 1918; presente sui palcoscenici del jazz dal ’41 col gruppo di Gorni Kramer, dal ’48 lo troviamo nel “jazz moderno” con i gruppi di Gaslini e Cuppini; nel biennio ’56 – ’57 entra a far parte del Sestetto di Jazz Moderno di Glauco Masetti; suona con Giulio Libano, Sergio Fanni, Valdambrini, Piana, D’Andrea, Manusardi, Buratti, tra gli altri

[3] Enzo Scoppa nasce a Roma, 6 dicembre 1934; collabora stabilmente con Modern Jazz Gang (’58-’62), Nunzio Rotondo (’70-’73) e, con il più famoso Quintetto Santucci Scoppa, di cui fanno parte D’Andrea, Giovanni Tommaso e Bruno Biriaco; suona con Mussolini, Lo Cascio, Kenny Clarke, tra gli altri

[4] Gianni Basso nasce ad Asti, 24 maggio 1931; basterebbe citare il Quintetto Basso-Valdambrini, con Sellani, Azzolini e Cazzola, oltre a Dino Piana che si aggiunge spesso, per dire molto su di lui, ma le sue collaborazioni sono innumerevoli, da Piero Umiliani (1952) a Fabrizio Bosso (2006), senza considerare quelle internazionali, che lo vedono al fianco di Chet Baker, Lars Gullin, Buddy Collette, Maynard Ferguson, Gerry Mulligan, Dusko Gojkovic, Kenny Clarke, Tony Scott, tra gli altri.

[5] Joe Henderson nasce a Lima, 24 aprile 1937; è una delle voci più originali del sassofono tenore: collabora con Andrew Hill, Kenny Dorham, McCoy Tyner, Bobby Hutcherson, Horace Silver, Lee Morgan, Grant Green, tra gli altri

[6] Larry Nocella nasce a Battipaglia (Salerno), 6 gennaio 1950; suona con Luigi Bonafede, De Piscopo, Mario Rusca, Gil Cuppini, gli AREA, Massimo Urbani, Gianni Basso, Julius Farmer, Franco D’Andrea, Cameron Brown, Dannie Richmond, tra gli altri e passa qualche anno a Parigi sotto la guida di Kenny Clarke.

[7] Tino Tracanna nasce a Livorno, 17 maggio 1956, ma vive da sempre a Bergamo; le prime formazioni lo vedono con il pianista Claudio Angeleri, con il quale fonda gli Ziggurat, ma è con Franco D’Andrea (1981) che diventa “maggiorenne”; segue un felice periodo con il Quintetto di Paolo Fresu e con diversi gruppi a suo nome.

[8] Maurizio Giammarco nasce a Pavia, 17 ottobre 1952, ma vive da sempre a Roma; inizia con Gaslini, frequentando le prime mitiche aule jazz del conservatorio di S. Cecilia; nel ’68 crea i Blue Morning (jazz-rock) e, dal ’71 collabora con Mario Schiano; suona con Eugenio Colombo, Rea, Pietropaoli, Gatto, Furio Di Castri, Tommaso Vittorini, Enrico Pieranunzi, Chet Baker, tra gli altri

[9] Francesco Bearzatti nasce a Pordenone, 9 ottobre 1966; nel 1998 esce il primo lavoro a suo nome, Suspended Steps; nello stesso anno collabora assiduamente con Giovanni Mazzarino; nel 2003 nasce il Bizart Trio, con Aldo Romano ed Emmanuel Bex all’organo; nel 2008 crea il Tinissima Quartet con Giovanni Falzone

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